L’ultima lettera di Paolo Borsellino. Il giudice Paolo Borsellino ha scritto una lettera 12 ore prima di essere ucciso dalla mafia. La lettera, redatta alle 5 del mattino di quel tragico 19 Luglio 1992 è l’ultima scritta. Dodici ore dopo perderà la vita sotto l’esplosione di un’auto carica di tritolo. Auto parcheggiata all’esterno del condominio dove viveva la mamma in Via D’Amelio 19 a Palermo.
Borsellino si alzava sempre alle 5 del mattino. Diceva che in quel modo riusciva a fregare il mondo con 2 ore di anticipo. Era solito in quel momento della giornata scrivere lettere.
E lo fece anche quella mattina. Una lettera indirizzata alla preside di un liceo di Padova, dove Borsellino avrebbe dovuto recarsi a gennaio di quell’anno salvo poi rimandare a causa di continui impegni che lo attanagliavano.
L’ultima lettera di Paolo Borsellino, da leggere interamente, è molto toccante in alcuni passaggi. Come quando dice di non riuscire in quei giorni neanche a vedere i suoi figli. Forse per allontanarsi affettivamente da loro e non farli soffrire quando sarebbe arrivato il suo momento.
Un esempio di come il giudice sapesse bene il destino che la mafia gli aveva assegnato. Sapeva bene che a Palermo il carico di tritolo per lui era già arrivato e ben presto sarebbe stato utilizzato. Così come lo sapeva anche il suo capo Pietro Giammanco che era a conoscenza di un informativa che però tenne nascosta al giudice.
Pietro Giammanco lo telefonò anche quella mattina del 19 luglio alle 7 del mattino per annunciargli che aveva finalmente la delega per indagare sui processi di mafia in corso di istruttoria a Palermo.
Delega che concedeva a Borsellino di interrogare senza vincoli il pentito Gaspare Mutolo. Dopo quella telefonata Paolo non scrisse più niente sul foglio e l’ultima lettera di Paolo Borsellino rimase incompiuta sul numero 4.
L’ultima lettera di Paolo Borsellino scritta 12 ore prima della sua morte
“Gentilissima” Professoressa,
uso le virgolette perché le ha usate lei nello scrivermi. Mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.
Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità. Disponibilità che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano.
Mi preannunciò che sarei stato contattato da un preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.
Capii che era stato “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene. I miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.
Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati..
Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perché frattanto la mia città si è di nuovo insanguinata. Io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perché dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.
Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.
L’ultima lettera di Paolo Borsellino: Il punto 1
1) Sono diventato giudice perché nutrivo grandissima passione per il diritto civile. Entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.
Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma ottenni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile.
Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovanni Falcone e sin da allora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.
Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente di criminalità mafiosa.
E sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarantanni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.
Il punto 2
2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.
La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.
Sino ad ora questi organi hanno agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.
Il punto 3

3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di “territorialità”. Essa e suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, legittimamente, lo Stato.
Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili ai prelievi fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti collegabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.
La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili. Sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione.
Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno.
Cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perché venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale.
Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività. Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra.
Ma non hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.